Catene veterinarie: due domande

Smart Vet Staff · 13/05/2021
Quale futuro per la veterinaria italiana, catene di cliniche o piccoli ambulatori?

La nascita di catene di strutture veterinarie non è una novità. È un modello presente nel nord Europa e già presente in Italia con le catene odontoiatriche. Da qualche anno oramai stiamo assistendo all’arrivo o in alcuni casi alla nascita, di catene veterinarie. I modelli banalmente sono due: si acquisiscono strutture già esistenti oppure se ne aprono di nuove sotto il marchio della catena. Il modello più diffuso è sicuramente il primo: l’acquisizione.

Le cliniche che vengono acquisite hanno generalmente un fatturato superiore a € 700k mentre ricordiamo che in Italia su 7.500 strutture veterinarie, l’82% è un ambulatorio composto da 1 a 3 medici, quindi al momento non appetibile per acquisizione. Altra peculiarità, le cliniche acquisite si concentrano al nord Italia, con qualcosina nel centro Italia, nel sud Italia siamo a quota zero. Qualche anno fa le previsioni delle aziende che gestiscono le reti sono state molto ottimistiche, con dichiarazioni più o meno esplicite di “100 strutture in 5 anni” o anche “40 aperture in 2 anni”;  ad oggi maggio 2021 dopo qualche anno il totale delle strutture veterinarie italiane, facenti parte di una rete, non supera la cinquantina.  

Riuscirà questo format ad affermarsi? Bella domanda, nessuno è in grado di prevedere il futuro, ma volendo fare un parallelismo con l’odontoiatria, la strada per le catene è di sicuro in salita.

In generale, le catene di cliniche (umane e non) sono strutturate come aziende, dove l’imperativo categorico è il raggiungimento del budget settimanale e/o mensile. Questo aspetto di per sé non è negativo, ma come abbiamo osservato in alcuni casi in odontoiatria, può portare a favorire la quantità a scapito della qualità. Nel caso dell’odontoiatria i giornali nazionali hanno effettuato inchieste, evidenziando situazioni a limite; questo per fortuna non si è riscontrato nella veterinaria e speriamo non avvenga mai.

Fuori dalla comparazione tra odontoiatria e veterinaria, il problema più grande per la veterinaria è la mancanza di un circuito assicurativo. Il mercato del nord Europa è diverso fondamentalmente per questo aspetto: i pet sono assicurati. Questo cambia totalmente il lavoro in quanto spesso non è nemmeno il cliente a “tirar fuori i soldi”, ma basta passare la card dell’assicurazione nel centro convenzionato e l’assicurazione paga direttamente la struttura. In questo modo la struttura ha la certezza di essere pagata, ha la possibilità di lavorare seguendo protocolli medici adeguati e organizzare il lavoro in modo da ottimizzare costi e ricavi.

Quindi si passa alla seconda domanda, perché i proprietari di pet (propet) non sottoscrivono assicurazioni? Forse per cultura, forse perché le assicurazioni non coprono le spese ordinarie come visita o vaccino, difficile da dirsi con certezza, ma guardando ad altri paesi i così detti “Piani di Salute” in realtà sono innestati a servizi assicurativi. Per cui il propet sottoscrive una sorta di assicurazione con piano preventivo (in Spagna si chiama Iguala), e conosce a priori la spesa per la salute del suo pet, senza sorprese.

Solo questo passaggio culturale o organizzativo potrà cambiare le sorti della veterinaria italiana, fino a quel momento ogni cambiamento o evoluzione sarà inesorabilmente molto lento e complicato.  

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