Catene veterinarie: due domande
La nascita di catene di strutture veterinarie non è una novità. È un
modello presente nel nord Europa e già presente in Italia con le catene odontoiatriche.
Da qualche anno oramai stiamo assistendo all’arrivo o in alcuni casi alla
nascita, di catene veterinarie. I modelli banalmente sono due: si acquisiscono
strutture già esistenti oppure se ne aprono di nuove sotto il marchio della
catena. Il modello più diffuso è sicuramente il primo: l’acquisizione.
Le cliniche che vengono acquisite hanno generalmente un fatturato superiore
a € 700k mentre ricordiamo che in Italia su 7.500 strutture veterinarie, l’82%
è un ambulatorio composto da 1 a 3 medici, quindi al momento non appetibile per
acquisizione. Altra peculiarità, le cliniche acquisite si concentrano al nord
Italia, con qualcosina nel centro Italia, nel sud Italia siamo a quota zero. Qualche
anno fa le previsioni delle aziende che gestiscono le reti sono state molto
ottimistiche, con dichiarazioni più o meno esplicite di “100 strutture in 5
anni” o anche “40 aperture in 2 anni”; ad oggi maggio 2021 dopo qualche anno il totale
delle strutture veterinarie italiane, facenti parte di una rete, non supera la
cinquantina.
Riuscirà questo format ad affermarsi? Bella domanda, nessuno è in grado di
prevedere il futuro, ma volendo fare un parallelismo con l’odontoiatria, la
strada per le catene è di sicuro in salita.
In generale, le catene di cliniche (umane e non) sono strutturate come aziende,
dove l’imperativo categorico è il raggiungimento del budget settimanale e/o mensile.
Questo aspetto di per sé non è negativo, ma come abbiamo osservato in alcuni
casi in odontoiatria, può portare a favorire la quantità a scapito della
qualità. Nel caso dell’odontoiatria i giornali nazionali hanno effettuato
inchieste, evidenziando situazioni a limite; questo per fortuna non si è riscontrato
nella veterinaria e speriamo non avvenga mai.
Fuori dalla comparazione tra odontoiatria e veterinaria, il problema più
grande per la veterinaria è la mancanza di un circuito assicurativo. Il mercato
del nord Europa è diverso fondamentalmente per questo aspetto: i pet sono
assicurati. Questo cambia totalmente il lavoro in quanto spesso non è nemmeno
il cliente a “tirar fuori i soldi”, ma basta passare la card dell’assicurazione
nel centro convenzionato e l’assicurazione paga direttamente la struttura. In
questo modo la struttura ha la certezza di essere pagata, ha la possibilità di
lavorare seguendo protocolli medici adeguati e organizzare il lavoro in modo da
ottimizzare costi e ricavi.
Quindi si passa alla seconda domanda, perché i proprietari di pet (propet)
non sottoscrivono assicurazioni? Forse per cultura, forse perché le
assicurazioni non coprono le spese ordinarie come visita o vaccino, difficile
da dirsi con certezza, ma guardando ad altri paesi i così detti “Piani di
Salute” in realtà sono innestati a servizi assicurativi. Per cui il propet
sottoscrive una sorta di assicurazione con piano preventivo (in Spagna si
chiama Iguala), e conosce a priori la spesa per la salute del suo pet, senza
sorprese.
Solo questo passaggio culturale o organizzativo potrà cambiare le sorti
della veterinaria italiana, fino a quel momento ogni cambiamento o evoluzione
sarà inesorabilmente molto lento e complicato.